Napoli festeggia Totò, lo scugnizzo del varietà

Una macchina di comicità e di surreale scardinamento del senso, “a prescindere”.
A prescindere dai critici che a lungo non si accorsero di quella genialità dalla risata eversiva e lo confinarono nel limbo del cinema.
A prescindere dalla vita che non fu generosa con lui e disseminò il suo cammino di incomprensioni e dolori.

A prescindere dalle celebrazioni tardive e dalle postume imbalsamazioni.
Qualcuno ha ricordato che il giorno della morte di Raimondo Vianello era stato anche quello, quarantatrè anni fa, di Totò.

E quella coincidenza ci ha ricordato anche il debito mai saldato con quella parabola creativa che germinata da Napoli si è proiettata nell'universale di una maschera che coincide il suo interprete.
Come è accaduto solo a Charlot, a Buster, a Stan & Oliver, a J erry.

Più forte di qualunque figura che le venisse imposta - imperatore di Capri, Le Mok˜ò, sceicco, Tarzan, terzo uomo, sexy, a colori, - di qualunque accompagnamento - Peppino, la malafemmina, i Re di Roma, Carolina, Eva, Fabrizi, - di qualunque luogo o circostanza - l'inferno, Parigi, la Luna.

Totò e la Tautologia di se stesso, paradossalmente confermata dal suo sdoppiamento in Antonio Focas (il cognome del padre naturale che lo riconobbe solo nel 37) Flavio Angelo Duca Comneno De Curtis di Bisanzio e perfezionata nel tempo, dai primi passi teatrali di Clerment nel 1913, quando aveva quindici anni, al Bel Ciccillo, dalle pulcinellerie all'avanspettacolo, fino alla grande rivista di Michele Galdieri dal 1940 per nove anni, in sodalizio - fino a “Roma città aperta” - con una soubrette che si chiamava Anna Magnani.

È in quegli anni che, dopo tentativi vari, comincia anche l'avventura nel cinema con ritmi tra i Quaranta e i Cinquanta da catena di montaggio. Sceneggiature all'osso e in tempo reale, con registi dalla virtù velocista come Steno, Mattoli, Bragaglia e la possibilità di improvvisare, che esaltano il suo automatismo comico.

Bazzecole, quisquilie pinzillacchere, vedi Omar quant'è bello, Quo vadis? No Ben H ur, noio volevan savoir l'indiriss, abbiamo fatto Pola faremo Amapola... la parola esce dai binari esattamente come il suo corpo si sconnette come quello di un burattino, gli occhi vanno per ogni dove e ogni momento è buono per lo sberleffo.

Poi, arrivarono gli autori, Lattuada (il re Timoteo che dialoga con i teschi nella cripta) e soprattutto Pier Paolo Pasolini che lo mette tale e quale, da sottoproletario del senso, nel funerale de corvo dell'ideologia di “Uccellacci e uccellini” e nei due “corti” memorabili “La Terra vista dalla Luna” e “Che cosa sono le nuvole”, lui con Ninetto Davoli a fare la versione pupara di “Otello” e a ritrovarsi malmenati e buttati via dal pubblico a guardare la bellezza di quei vapori nel cielo. Era il '66.

Ancora il sogno di fare Don Chisciotte e un film tutto muto, la tv che non ha portato molto e una scena soltanto ne “Il padre di famiglia” di Nanni Loy.
Quella di un funerale.  A‚ 43 anni dalla morte però Napoli aspetta ancora il suo museo.

Via IlNapoli scritto da Guido Barlozzetti

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